Le funzioni della laringe nella didattica del canto: riflessioni metodologiche per un aggiornamento della pedagogia vocale

Massimo Sardi

Mi resta ora a parlare ancora delle vocette sottili e deboli [i corsivi sono dell’autore] nell’intero loro registro, che, secondo me, poco valgono, perché qualunque voce deve avere (per quanto più si può) un buon corpo. Si osservano ordinariamente queste voci, debolissime nelle corde di petto, ed in conseguenza prive delle voci gravi, ma ricche di acuti, o siano voci di testa. Se a tale qualità di voci si procurerà aumento e robustezza, da vocette infelici, diverranno voci buone, grate e pregevoli. Per ottenere questo, non v’è, a mio credere, il più sicuro mezzo, che di far cantare per qualche tempo coloro, che sono in simili circostanze, nelle sole corde di petto.

L’esercizio dovrà farsi con un solfeggio posato; ed acciocché la voce guadagni maggior corpo e distesa, vi si dovrà frammischiare delle voci gravi.

Ciò non basta: conviene ancora far sentire allo scolare la necessità di fare che queste voci siano non solo sonore e purgate da ogni difetto, ma anche proferite, e vocalizzate con pronunzia rotonda e maestosa; e questo per toglier loro la pronunzia puerile, che suole esser connaturale alle menzionate vocette. Vinta una difficoltà tanto grande, si deve pensare di introdurvi le voci, che ne compongono il secondo registro: e siccome in questo caso tali voci sono già favorevoli nello scolare, che ha una naturale disposizione a cavarle, così l’unione suddetta riuscirà facile insieme e felice”.[1]


Giovambattista Mancini non ha dubbi da dove cominciare ad impiantare una voce acerba: dal robusto, istintivo suono di “petto”, che è poi la voce forte del popolo con la quale si comunicava in campagna da poggio a poggio quando ancora non c’era il telefono, o quella delle grida dei venditori dei mercati o degli ambulanti. Ma questa premessa non vuole preludere a un’ennesima riflessione sul degrado dell’attuale scuola di canto e invitare a un “ritorno all’antico”: tutt’altro. Si vuole far notare come in un trattato della seconda metà del settecento, per fondare le basi della voce, senza mezzi termini, si prendesse in considerazione un elemento chiaramente laringeo, oggi solitamente eluso, se non chiaramente considerato negativo nell’emissione femminile[2]. Per farla breve, quella che attualmente si definirebbe una voce grezza, pesante o, per usare un termine corrente, non girata.

Ma procediamo con ordine.



Il punto sulla didattica attuale

L’attuale didattica del canto si riferisce principalmente a due elementi:



1- il controllo del fiato, con il correlato concetto di appoggio, e

2- la “ricerca” della risonanza tramite il concetto di piazzamento del suono in maschera.

L’appoggio – Il suo uso più frequente è quello riferito all’apparato respiratorio ed è attuato all’attacco del suono. Volendone dare una definizione, andrebbe precisato che l’appoggio del fiato (a volte si preferisce usare il termine succedaneo di sostegno) tende a stabilire l’equilibrio fra diaframma e muscoli espiratori, per garantire, con il controllo dell’espirazione, la giusta pressione sottoglottica e il corretto flusso del fiato attraverso le corde vocali. Nel dettaglio, all’azione dei muscoli espiratori si contrappone, in funzione antagonista, quella del diaframma che è mantenuto, a questo scopo, in posizione inspiratoria. Sulla realizzazione di questo stato di cose la letteratura specifica è ricchissima di metodologie respiratorie a volte anche in contraddizione fra loro, ma comunque tutte concordanti sul fatto di non coinvolgere la parte più alta della muscolatura toracica. La materia su cui insiste questo concetto è molto importante, dal momento che regola la situazione pressoria a monte della vibrazione cordale, e dal cui dimensionamento dipende l’equilibrio dell’assetto laringeo.

A questo concetto si possono imputare due torti:


a) di essere, con troppa facilità, risolto come spinta del fiato, cosa che genera, per compensazione, rigidità nella zona laringea, vanificando così lo scopo principale che è l’equilibrio in questa zona, complicandovi così i delicati aggiustamenti muscolari.

b) Il suo abuso e applicazione nei contesti più diversi[3] è più causa di confusione che di chiarezza applicativa.


Il piazzamento del suono “in maschera” - Nel lessico del canto si intende per maschera la regione delimitata dalle ossa anteriori del cranio, dalle ossa facciali intorno agli zigomi e al naso, e dal palato duro, dove vengono percepite la maggior parte delle sensazioni sonore quando l’emissione è corroborata da un certo numero di armonici alti, in genere quelli che costituiscono la formante di canto.

La sua fortuna come strumento didattico risiede unicamente nel fatto che per molto tempo le cavità craniche da essa delimitate, sono state ritenute sede degli armonici superiori senza i quali alla voce manca quello smalto e quella luminosità che le permettono di penetrare l’orchestra e di essere percepita senza l’ausilio di strumenti di amplificazione.

Il fenomeno della maschera è di facile esperibilità da parte di ogni buon cantante, ma percepire sensazioni in quel punto non significa poterle attivare indirizzando (in quale maniera, poi?) ipotetiche colonne del fiato in particolari punti del palato o della fronte, come si sente spesso raccomandare. D’altra parte non si saprebbe come intervenire su una zona non modificabile, essendo nella sua quasi totalità di natura ossea. Di questo concetto è stato comunque notevolmente ridimensionata l’importanza didattica, nonostante goda ancora di molto apprezzamento da parte di insegnanti e allievi, dal momento che la ricerca scientifica (ma forse sarebbe bastato un pizzico di buon senso) lo ha esautorato da qualsiasi influenza obiettiva sul suono[4] ridimensionandone l’utilità, per altro non trascurabile, a semplice feedback.

Ma gli aspetti più problematici di un impianto didattico del genere non sono tanto rappresentati dalle caratteristiche intrinseche dell’uno o dell’altro concetto, ma dal fatto che, nella pratica didattica, l’attenzione indirizzata ad entrambi, tende, nell’organizzazione mentale dell’emissione, a bypassare (scusate l’orribile, ma efficace anglicismo) l’apparato dove il suono si genera e si forma - la laringe e la faringe – che resta comunque l’interlocutore principale dei primi due. Insistendo a monte sul supporto aereo cercando di dimensionare la spinta del fiato, e a valle sulla ricerca di sensazioni vibratorie in particolari punti del corpo[5], si finisce per agire sul suono per via indiretta complicando notevolmente proprio l’elemento che più interessa: il controllo di quest’ultimo. Ma c’è un’altra considerazione da fare: spostare troppo l’attenzione dell’allievo sul problema dell’appoggio (tralasciamo per ora quello del piazzamento, che come abbiamo visto si riferisce ad una zona non modificabile), lo si indirizza su un complesso di muscoli che, confrontati con quelli della laringe, hanno una massa notevolmente più rilevante di questi ultimi e di conseguenza caratterizzati da un funzionamento più grossolano e invasivo, specie se lo si considera inserito in un gesto enfatico come il canto. Nasce da qui, molto probabilmente, la tendenza a spingere, e da questa prospettiva rendere congruente il flusso di fiato con la tensione delle corde vocali, cioè garantire l’equilibrio fra queste due strutture, diventa un problema di difficile soluzione[6].


Dal quadro esposto si vede bene come, nonostante siano stati risolti i dubbi sui delicati meccanismi della laringe e nessuno ne metta più in dubbio l’importanza e la centralità nel complesso fenomeno del canto, la didattica faccia fatica a farsi carico di collocare l’organo della fonazione nel giusto rapporto con gli altri apparati[7]. Non solo il lessico specifico del canto è poverissimo di termini che si riferiscono alla funzionalità laringea, ma le stesse immagini e i gesti che accompagnano le indicazioni dell’insegnante, sono, nella loro quasi totalità, riferiti ai fenomeni di risonanza e di gestione del fiato. L’ipertrofia del quadro legato a questi due concetti è il primo presupposto per una falsa coscienza fonatoria, tanto più fittizia, quanto più lontana dall’obbiettività della laringe.



Un cambiamento di prospettiva

A nessuno interessa demolire completamente l’attuale impianto pedagogico che ha pur dato alla storia del canto nomi illustri, vere pietre miliari dell’interpretazione vocale di tutti i tempi. Volendo fare un paragone con l’arte del navigare, popoli come i Fenici, i Vichinghi, fino ai Portoghesi, che con la loro perizia marinara hanno forzato i confini del mondo allora conosciuto, operavano orientandosi secondo l’organizzazione tolemaica degli astri che soddisfaceva perfettamente (e in parte lo fa anche oggi), le necessità dei naviganti di allora. Ciò non toglie che la “prospettiva” copernicana abbia allargato notevolmente la possibilità di viaggiare. E non solo per mare.

Anche la pedagogia vocale ha bisogno di fare i conti con nuove esigenze seguite alle mutate condizioni sociali, come l’aumento della domanda di chi aspira a cantare e, soprattutto, l’allargamento dell’espressione cantata a generi molto diversi fra loro per ciò che riguarda il suono e la sua emissione. Non basta più un approccio in gran parte istintuale ed empirico alla vocalità, ma occorrono strumenti didattici obbiettivi e una metodologia più lineare e meno farraginosa. Quest’ultima, in particolare deve risultare semplice e il più possibile oggettiva nell’applicazione, riferita a poche variabili, inserite a loro volta in una gerarchia chiara e di facile intuizione.


Nell’organizzare funzioni complesse che si basano sul concetto di coordinazione conviene dimensionare il modus operandi sulla parte più delicata, e nell’ apparato vocale questa è rappresentata dalla laringe. Se quest’ultima, nella prima metà del XIX secolo, è stata la prima a stimolare la curiosità di Manuel Garcia Jr., inaugurando l’epoca dell’indagine scientifica della voce, solo negli ultimi cinquant’anni è stato possibile riunire dati coerenti che riguardano il suo funzionamento in una teoria della fonazione rappresentativa e congruente con i fenomeni legati alla vocalità artistica.

Gli ambiti di questo intervento non consentono di scendere in dettagli, ma proprio per gli scopi che ci siamo posti è importante ribadire e sottolineare alcuni elementi fondamentali:



§ Le pieghe vocali sono regolate da due diversi meccanismi muscolari:

a) primo meccanismo che ne modifica la massa

b) secondo meccanismo che ne modifica la tensione longitudinale

§ La loro adduzione, o meglio, il loro accollamento nei cicli vibratori, non è tanto prodotto da una forza muscolare intrinseca, come riteneva la teoria mio-elasica classica, quanto il risultato di forze aereodinamiche prodotte dal passaggio stesso del fiato e che obbediscono ad una legge di meccanica dei fluidi che va sotto il nome di teorema di Bernoulli.

§ La timbrica del suono vocale, e cioè tutto il bagaglio di armonici che generalmente accompagna e rende bella ed efficace la voce cantata, si forma nel tratto vocale, inclusa la laringe, e da nessun’altra parte.



“Registrare necesse est” – Imparare ad usare i registri

Il primo meccanismo produce quello che comunemente si chiama registro di petto o registro grave. È la voce generalmente usata oggi nella musica leggera ed alla base della belting voice del musical americano. Nella musica d’arte connota la voce maschile, ma è alla base anche dell’emissione femminile, che proprio grazie al suo apporto acquista rotondità e ricchezza di colori, essendo questo meccanismo responsabile della potenza della voce e in genere della dinamica del forte. Dal punto di vista fisiologico è il risultato dell’azione di un solo muscolo, il più grande e più complesso di tutta la muscolatura intrinseca: il “muscolo vocale”, o, per essere precisi, della piega interna del tiroaritenoideo, in pratica le corde vocali stesse.

Il secondo meccanismo produce i suoni comunemente chiamati di testa o di falsetto. Sono suoni esili e leggeri che non hanno una grande portata, se non nel registro acuto quando la tensione cordale ne aumenta l’efficacia. Nella musica d’arte connota l’emissione femminile, ma entra a far parte, in background[8], anche di quella maschile soprattutto nella mezzavoce e nella capacità di salire alle note acute, essendo responsabile della dinamica del piano e dell’innalzamento del tono. Dal punto di vista fisiologico vi concorrono tutti i muscoli che tendono ad allungare le corde vocali, principalmente i cricotiroidei e i cricoaritenoidei, soprattutto quelli posteriori.

I due gruppi di muscoli sono antagonisti, nel senso che il primo, aumentando la massa delle corde, tenderà di conseguenza ad accorciarle; mentre il secondo, agendo longitudinalmente, tenderà ad allungarle, ma anche a far loro perdere massa assottigliandole.

Il principiante tenderà in genere ad usare il meccanismo che gli è più familiare: gli uomini il registro grave, le donne il falsetto.[9] Il training vocale a questo livello avrà come obbiettivo la possibilità di gestire entrambi i meccanismi durante la transizione fra un suono e l’altro, in modo da cedere sul primo man mano che si insiste sul secondo, e viceversa, in una perfetta complementarietà.


La prima difficoltà che si incontra nel procedere in questa direzione è di carattere culturale: la radicata diffidenza che i cantanti hanno verso qualsiasi sensazione laringea. La scienza, per obbiettive difficoltà di indagine, ha faticato a comprendere sia i meccanismi laringei che la natura dei tessuti coinvolti nella vibrazione. Tutto l’apparato ha finito per essere classificato secondo categorie di estrema fragilità, in parte giustificata dalla sua complessità, in parte legata soprattutto all’ignoranza funzionale. L’assenza di indicazioni didattiche lamentata in precedenza, ne è insieme la conseguenza e la riprova.

È vero, chi canta correttamente non sente costrizioni né sforzi a livello di gola. Ma questo è solo il risultato di una serie di azioni muscolari coordinate ed è l’equilibrio fra queste ultime all’origine della sensazione in oggetto. D’altra parte non importa scomodare la teoria della relatività per ricordare come il dato sensoriale spesso poco ci dica dell’effettivo svolgersi degli eventi[10]. Per un aereoplano che dopo aver rullato sulla pista si stacca da terra, sembra che la leggi di gravità cessino di esistere, ma la sua apparente leggerezza non è altro che un complesso interagire di forze che concorrono a quel risultato.

Così succede anche per l’emissione vocale corretta: il giusto equilibrio delle azioni muscolari laringee, azzera la percezione delle stesse in una sensazione di “non intervento” nella parte interessata; e tornando al problema di organizzare l’itinerario di impianto della voce, sarà allora ovvio che la percezione laringea, soprattutto come “attenzione alla zona”, dovrà far parte delle sensazioni di chi comincia lo studio del canto. Questo, ovviamente, senza allentare più di tanto le normali precauzioni che devono guidare chi esercita meccanismi così complessi. Importante è cessare di aggirare il problema solo perché di difficile soluzione.


La seconda difficoltà è invece di natura tecnico-procedurale ed è rappresentata dalla difficoltà di indirizzare azioni consapevoli su un apparato muscolare così ridotto e nascosto, da essere collocato generalmente fra i comportamenti al di sotto del livello di coscienza.

Ma l’attività laringea è inconsapevole solo perché abbiamo imparato ad automatizzarla fino dall’infanzia e le azioni che la caratterizzano, detto in termini più precisi, sono passate dalla corteccia agli strati più profondi del cervello. Nonostante non si possa giungere ad un funzionamento laringeo differenziato paragonabile alle mani di un pianista, molte cose possono essere fatte in quella direzione. Ci sono persone con arti artificiali che muovono questi ultimi, come se fossero quelli naturali, inviando loro, tramite l’ausilio di un softwere, dei messaggi neuronali. Questo è possibile per la capacità e che ha la mente di individuare nello spazio le parti del corpo e inviare impulsi alla periferia con molta precisione. Con il dovuto esercizio si può ottenere una cosa analoga con le funzioni laringee, e man mano che si sperimentano esercizi vocali, orientando sulla parte interessata la necessaria “attenzione”, si scopre di quanta capacità di “manovra” possiamo disporre a quel livello[11].

Spesso elementi che esercitano la loro influenza prevalentemente nell’ambito dell’acustica, attraverso precisi rapporti anatomici con strutture più profonde, possono, indurre, o come minimo facilitare, significative variazioni sul comportamento della laringe[12].



Ma il fiato cosa c’entra? - Il difetto che diventa virtù

La laringe dell’uomo non era fatta per cantare. Questo organo, anche dal punto di vista morfologico, rimane fondamentalmente una valvola e in origine aveva proprio questa funzione: impedire che oggetti estranei penetrassero in un organo vitale e delicato come i polmoni. In seguito, con la stazione eretta dei primi ominidi, assunse anche quella di dare, con la sua chiusura, stabilità al torace e, con l’ancoraggio solido delle braccia, permettere il sollevamento di pesi da terra. Anzi possiamo azzardare l’ipotesi (e qualcuno lo ha fatto) che il primo suono vocale possa essere stato emesso proprio per un improvviso cedere della valvola sotto uno sforzo del genere.

Detto questo non è difficile intuire come la funzione canora, anche quella qualitativamente ineccepibile, possa espletarsi -sembra un paradosso- solo in presenza del cattivo funzionamento della valvola di cui sopra. Anzi si può affermare che l’arte vocale, soprattutto in quello che la rende più spettacolare, il dominio della regione acuta, poggia proprio sul controllo di questo cattivo funzionamento, cioè nel garantire, in qualsiasi condizione, continuità e omogeneità a questo difetto funzionale.

Se la valvola è efficace non c’è perdita di aria, e senza passaggio di aria non c’è produzione del suono. Troppo spesso ci si dimentica che per una corretta fonazione (includendo in questa anche il parlare) non è solo necessaria una buona “adduzione” delle corde vocali, ma anche una loro corretta “abduzione”, cioè riapertura, per poter coordinare il ciclo con perfetta regolarità: in breve quello che si chiama un buon “equilibrio pneumo-fonatorio”. Nonostante l’assunto sia di facile intuizione, ovviamente più complesso risulta utilizzare questa consapevolezza con finalità didattiche nel canto.


Camminare : correre = parlare : cantare. Questa semplice proporzione rende in maniera generica, ma significativa, la dimensione dell’aumento di complessità e di impegno energetico nel passare dalla fonazione parlata a livello del canto. Se il problema di coniugare due funzioni opposte come l’apertura e la chiusura della glottide su questo organo piccolo e nascosto - visto dall’alto ha circa le dimensioni di una moneta da 50 centesimi- impariamo a risolverlo fin dalla nascita, portare questa perizia a livello di vocalità artistica, è quello che, come parte tecnica, viene circoscritto in un corso di canto.

Pur continuando a procedere secondo l’ottica laringea, dopo la registrazione il problema dell’emissione vocale richiede la reintroduzione del concetto di fiato. A questo punto non affrontato come problema di meccanica respiratoria, ma direttamente connesso con il suo passaggio attraverso la glottide, assolutamente determinante per la fonazione[13].

Strutturare la coscienza del supporto aereo sulle corde vocali è importante soprattutto perché da questa postazione è più facile controllare il suo rapporto con il funzionamento laringeo, dal momento che, come accennato sopra, specialmente nella regione acuta, si tende ad una sovrabbondanza del primo. Quantificare il flusso d’aria tramite il solo elemento dell’appoggio risulta grossolano e spesso contraddittorio, in quanto è facile risolverlo come “quantificazione della spinta”. Se paragoniamo il cantare al procedere di un veicolo, è intuitivo assimilare il fiato al carburante. Ma il controllo di quest’ultimo, nell’auto, non avviene sulla pompa della benzina, ma su un elemento più raffinato: il carburatore, il solo che possa garantire il giusto equilibrio fra aria e benzina. Così nel canto conviene trasferire il controllo mentale del flusso aereo sulla laringe (l’elemento carburatore) e non sull’appoggio (la pompa). È l’assetto laringeo che decide di quanta pressione sottoglottica c’è bisogno e non l’appoggio.

Per chiarire meglio questi ultimi concetti conviene aggiungere qualche dettaglio.

Quando la voce cantata rimane nell’ambito della prima ottava, l’equilibrio pneumo-fonatorio viene risolto abbastanza spontaneamente. Dare continuità al flusso del fiato attraverso la glottide non pone grossi problemi su questi suoni: più o meno ci soccorre, fatto salvo la qualità del suono, quello che abbiamo imparato a fare con la gestione della parola, e a questo concorre il fatto che l’altezza tonale è quella che usiamo nell’espressione verbale. I problemi sorgono quando ci avviciniamo a certe soglie, i passaggi, che ci imporrebbero una maggiore destrezza nell’arginare l’improvviso aumento di efficienza della “valvola” che sappiamo metter in crisi il suono.

Succede che, per i suoni del settore più acuto, fuori dalla pratica della quotidianità, si perda facilmente la capacità di equilibrare adeguatamente l’apporto differenziato della complessa muscolatura della laringe. In particolare con l’innalzarsi del tono, aumentando la tensione delle corde, si crea un’opposizione muscolare sempre più tenace al passaggio del fiato, con conseguente perdita di flessibilità della mucosa. Se si continua a salire in condizioni di squilibrio, si ricorre istintivamente ad un aumento del supporto aereo che crea ulteriore tensione sulla rima glottale con il reclutamento della muscolatura limitrofa. Un circolo vizioso che, come si capisce, ha poco a che fare con il buon canto. Eppure è quello che comunemente si sente anche in cantanti di un certa rilevanza.

La laringe e risonanza

Il suono glottale, prima di giungere all’esterno ed essere percepito dagli ascoltatori, passa in una serie di cavità costituite da: la faringe, la cavità orale e, nell’articolazione di particolari fonemi, le cavità nasali che tramite il completo o parziale abbassamento del palato molle o velo palatino, possono funzionare in alternativa o insieme alla cavità orale stessa. Fatto questo tragitto il suono fuoriesce e diventa oggetto di percezione. In effetti, lo avevamo già anticipato e lo sottolineiamo in questo momento del nostro procedere, la risonanza vocale, quella che si aggiunge alla fondamentale per dare qualità vocaliche e timbro al suono, non si forma e si amplifica nei seni paranasali, frontali, sfenoidale e, per le frequenze più basse, nella cavità toracica (che per la verità sarebbe piuttosto ingombra di materiale assolutamente inadatto a risuonare!), ma soltanto in quello che foniatri, fonetisti e fisici acustici che si occupano della voce, chiamano, con termine per la verità poco elegante, tubo aggiunto , o, meglio, tratto vocale, costituito appunto dalle prime cavità sopra elencate.

Soprattutto in particolari condizioni di emissione (vedi equilibrio pneumo-fonatorio, registrazione), la frequenza fondamentale prodotta nella laringe (F0), possiede già un gran numero di armonici la cui ampiezza decresce con l’aumentare della loro frequenza. Il tubo aggiunto o tratto vocale, d’altra parte, ha la possibilità di amplificare o smorzare certi armonici, e, in funzione della geometria del suo assetto (condizione variata dai movimenti degli organi articolatori e della laringe stessa), lo fa delimitando, sulla linea di inviluppo di F0, quattro o cinque picchi di frequenza chiamate formanti, che per il tratto vocale di un maschio adulto di normali dimensioni, si aggirano rispettivamente intorno a 500, 1500, 2500 e 3500 Hz. Diminuendo o aumentando la lunghezza del tratto vocale si hanno, rispettivamente, picchi a frequenze più alte o più basse. Le prime due formanti, variamente composte a frequenze diverse nell’articolazione, danno luogo alle vocali, le altre hanno una funzione più timbrica.

Soprattutto nella voce operistica compare, fra la terza e la quarta formante - di solito meno pronunciate delle altre –, un nuovo picco, di notevole intensità, che si colloca, a seconda della voci, fra 2800 – 3200 Hz, proprio nella zona dove lo spettro sonoro, anche quello di un’orchestra, è più povero. Questa formante, che come abbiamo visto caratterizza specificamente la voce cantata bene emessa (ed è quella percepita, per effetto induttivo, nella maschera), viene indicata di solito come formante di canto (“singing formant”) e unita al suono vocale, data la sua frequenza, procura un effetto di particolare brillantezza. In virtù di questa qualità il suono del cantante “corre” ed è udibile, senza ausilio di amplificazione, sulla massa orchestrale.


Il dato interessante, e che ci interessa particolarmente, è che questo valore aggiunto del suono, che ancora oggi è l’elemento cardine per valutare la correttezza di un impianto vocale, dipende dall’assetto laringo-faringeo. Come per i registri vocali, anche il suono in maschera è figlio di genitori più plebei, e ancora una volta scopriamo con quanta facilità i sensi ci ingannino e, affidandoci ai dati che forniscono, con troppa facilità lasciamo all’immaginazione il compito di colmare le lacune ed alla fantasia quello di organizzarli in metodologie più o meno efficaci. Un po’ come nel mito platonico della caverna, sullo sfondo della quale l’uomo vede proiettate delle ombre che ingenuamente crede la realtà, anche al cantante succede di essere ingannato dall’apparenza, facendogli individuare le cause dove si manifestano invece solo gli effetti.

È ormai accertato che la formante di canto è una frequenza propria della laringe che passa nel tratto vocale solo se l’area di sbocco fra quest’ultima e la faringe è uguale o superiore ad 1/6 della sezione di quest’ultima. Questo fattore si realizza generalmente quando la laringe è abbassata, fattore che unito al corrispondente allargarsi della faringe, crea le condizioni acustiche perché il tratto vocale possa partecipare di questa frequenza e aggiungerla alle altre amplificata. Va notato, inoltre, che all’origine del fenomeno sembra esserci la possibilità della mucosa che ricopre le corde vocali di differenziarsi in onde di accollamento parziali in presenza di fase verticale, cioè quando le corde presentano un certo spessore (attività del 1° meccanismo). Questo spiegherebbe il perché questa formante è spesso prerogativa di voci di un certo spessore.

Tramite sempre l’invio di messaggi neuronali è possibile per chi canta creare e mantenere durante l’atto fonatorio queste condizioni. Il renderle istintuali non può passare che da un training vocale che abbia come riferimento principale la laringe e le strutture ad essa limitrofe.



Conclusioni

In sostanza non si tratta di negare l’importanza didattica del fenomeno respiratorio o di quello di risonanza: entrambi sono fattori che concorrono all’equilibrio del suono e la didattica non può trascurarli. Il problema è collocarli in un quadro più generale che preveda una priorità funzionale, almeno per ciò che riguarda l’organizzazione mentale dell’emissione, dell’apparato produttore del suono, senza il quale è impossibile definire e coordinare correttamente le funzioni degli altri due. Per avere del “buon” canto è indispensabile possedere una buona conoscenza funzionale del proprio strumento e per risolvere in maniera adeguata questo problema occorre, con un termine mutuato dall’informatica, disporre di un’interfaccia semplice per poter manovrare la voce dalla postazione più comoda ed efficace. Occorre inoltre ribaltare i termini su cui si è fondata la coscienza della voce: l’azione vocale deve instaurarsi non tanto sulla ricerca di sensazioni, quanto sull’agire che le provoca. Ogni tecnica si fa carico dell’organizzazione delle cause non degli effetti e il canto non fa eccezione. Purtroppo ancora ho il sospetto che, nonostante tutto, debba ancora essere fatto il primo passo in questa direzione: far uscire la “gola” dal ghetto in cui forse ancora è relegata e cessare la sua demonizzazione.



Bibliografia

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M.Hirano, J.Ohala, W.Vennard -“The function of of laryngeal muscles in regulating fundamental frequency and intensità of phonation”- Journal of Speech and Hearing Research -12 – (1969)

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H.Haken – “Sinergetica – Il segreto del successo della natura” – Boringhieri (Torino, 1983)

R.Miller – “The Structure of Singing” – Schirmer Books (New York, 1986)

G.Rohmert – “Il cantante in cammino verso il suono” – Diastema Libri (Treviso, 1995)

P.Lindestad – “Laringeal muscle physiology” – Atti Convegno Eurovox (Oslo 2004)








[1] G.B.Mancini – “Riflessioni pratiche sopra il canto figurato” – Vienna 1774, pag. 126-127
[2] L’Autore, famoso castrato del suo tempo, nella trattazione si riferisce prevalentemente a questo tipo di voce.
[3] Si parla di: appoggio sul diaframma, sui denti, sulla vocale, sul palato, sul fiato, appoggio in maschera, in testa (anche appoggio nella nuca) e appoggio in petto
[4] Stessa sorte è avvenuta per il petto come risonatore. Ma non così per il risonatore corpo, da quando una parte della pedagogia del canto si è avvalsa di alcuni concetti propri delle discipline orientali che vedono il suono vocale come fenomeno olistico riferibile alla totalità della persona.
[5] Quest’ultima operazione è caratterizzata da particolari aspetti di indeterminatezza, data la soggettività della risposta acustica delle cavità in questione. A questo proposito fa sorridere l’ingenuità di certi diagrammi dove in vari punti del cranio viene riportata, meticolosamente nota per nota, la percezione del suono nell’ambito delle varie voci.
[6] L’apparato produttore del suono (ma il discorso potrebbe essere esteso a tutto lo strumento vocale) può produrre suoni intonati secondo le modalità più diverse, ma solo poche sono idonee al suo funzionamento ottimale per ottenere alte prestazioni con il minor sovraccarico delle sue delicate strutture.
[7] La stessa logopedia, nonostante si avvalga in genere di protocolli di intervento alternativi improntati ad un certo rigore scientifico, spesso ha un atteggiamento troppo riverente nei confronti dell’ambito vocale artistico e concorre non di rado a perpetrare punti di vista che avrebbero bisogno di radicale revisione.
[8] Vennard (Singing-The Art and the Mechanism- New York 1967) parla di “registro nascosto”. Lo stesso anche per la voce femminile che, naturalmente ha il primo meccanismo in background.
[9] La familiarità con cui si emette la voce dipende da fattori imitativi. Nel caso della voce femminile l’istintivo uso del falsetto è legato all’ambito della musica d’arte, dal momento che anche le donne, nella musica così detta leggera cantano prevalentemente con il primo meccanismo.
[10] Se possiamo condividere l’assenza di sensazioni alla gola da parte di chi canta (ma forse bisognerebbe parlare di non percezione di sforzi), non possiamo accettarla come indicazione da parte degli insegnanti agli allievi che equivarrebbe, un po’, alla prescrizione della salute al paziente da parte del medico.
[11] Per l’esattezza la pedagogia corrente interviene in parte sul suono laringeo attraverso le qualità del suono, come il colore “chiaro” e “scuro” o concetti come la “copertura”, che nonostante insistano su variabili acustiche, hanno quasi sempre anche un risvolto laringeo.
[12] Per ciò che riguarda il rapporto fra postura e suono si rimanda ad una trattazione specifica, dato che riteniamo tutta la materia obiettivo di un training da svilupparsi a parte.
[13] L’affinamento del comportamento respiratorio come problema meccanico, conviene affrontarlo in un secondo momento, quando questa pratica può concorrere ad un ulteriore affinamento della capacità di gestione del suono attraverso la registrazione.