DALLA FLESSIBILITA' DELLA GOLA AL DO DI PETTO

di Franco Fussi

La relativa limitatezza dei volumi e delle estensioni vocali richieste dalle composizioni rinascimentali e barocche favorirono lo strutturarsi di una tecnica vocale che prevedeva l’uso di una voce “naturale” con corretta pronuncia, permettendo l’intellegibilità del testo secondo l’estetica del “recitar cantando” e con affronto del settore acuto con voce “finta”, o falsetto. Secondo le indicazioni di Vicentino, Zacconi e dei teorici della prima metà del Seicento, l’estensione della voce cantata raggiungeva una decima con possibilità di aumento, per i migliori cantanti professionisti, da due a quattro gradi. Si chiedeva di far risuonare le figure secondo la natura e proprietà delle parole, senza preoccuparsi di quegli aggiustamenti fonetici e timbrici che le tecniche di passaggio di registro dell’epoca romantica avrebbero imposto, lasciando il suono naturale e la parola intellegibile. Le variazioni timbriche insite nlla pronuncia delle vocali sono determinate dagli spostamenti della lingua e della mandibola durante l’articolazione delle parole. Nella spettrografia di una emissione vocale, il valore dei primi due picchi di amplificazione di armoniche, detti prima e seconda formante, sono legati, a parità di nota fondamentale, all’atteggiamento rispettivamente della cavità faringea e ai movimenti della lingua. Tutte le volte che si vogliano impedire evidenti cambiamenti nel colore della voce si suggerisce di “arrotondare” il suono, in pratica di mantenere stabile un certo volume/spazio della cavità faringea. Questo comporta, di conseguenza, minori variazioni delle posizioni linguali rispetto al parlato, che portano a minori variazioni del valore della seconda formante. Ne deriva una minore specificità timbrica nel variare le vocali tra loro, migliorando da un lato l’omogeneità del colore e il volume (faringe stabile e ampia), ma con minore intelligibilità sul piano articolatorio delle vocali stesse.
Ecco perché nelle tecniche antiche non venivano ricercati grossi abbassamenti della scatola laringea, come invece nel canto romantico, teso alla ricerca di spazio in ipofaringe e nel vestibolo laringeo. Il settore acuto, peraltro limitato nell’estensione, era raggiunto spingendo avanti la scatola laringea con meccanismo di allungamento attivo delle corde vocali per contrazione del cricotiroideo, e con mandibola protesa a garantire ampiezza dello spazio orofaringeo, garantendo una articolazione più naturale possibile.
Rispetto alle caratteristiche più intime della “vocalità da camera” preoperistica, le necessità del teatro in musica, almeno per il repertorio belcantistico e fino al primo Verdi, furono quelle di conciliare nell’emissione vocale le esigenze teatrali di penetrazione acustica della barriera orchestrale e quelle estetiche di morbidezza e dolcezza del suono. Esse rappresentarono un traguardo tecnico del quale oggi, a seconda del repertorio ma anche della cifra interpretativa, si privilegia ora l’una ora l’altra delle componenti, a volte l’aspetto strumentale del canto, altre quello protagonistico dello “spessore” vocale. La cifra interpretativa scelta dal direttore d’orchestra viene allora a legittimare la scelta esecutiva.
Sono le due facce della medaglia dell’evoluzione delle possibilità vocali nel canto colto occidentale: il massimo virtuosismo e la massima amplificazione naturale della voce.
Senza “canto di gorgia” non si sarebbe mai arrivati al virtuosismo di opere quali Semiramide o Puritani e a vocalità come quelle di Rockwell Blake o Joan Sutherland, e senza “ipertrofie” non vi sarebbero state opere come Turandot o Elektra e vocalità come Franco Corelli o Birgit Nillson.
Le possibilità del canto di agilità originano dal canto di gorgia, nato come modalità per la realizzazione del “canto passeggiato”, secondo la poetica della “sprezzatura”, da cui scaturirono gli abbellimenti e il canto fiorito. Il tutto poggiava sui concetti di “flessibilità della gola”, che doveva essere in grado di produrre rapide variazioni di tensione cordale attraverso la libertà di movimento della laringe nel collo. Ma quando la pratica in teatro iniziò a fare i conti con spazi esecutivi più vasti, un maggior numero di elementi orchestrali e mutamenti estetici per una vocalità più aderente alla realtà drammatica dell’espressione canora, subentrarono la ricerca di una maggiore stabilità in ampliamento dei risuonatori e la pratica di un registro sempre più pieno anche nei toni centrali e acuti. Ciò per arricchire l’intensità delle armoniche parziali e focalizzare il loro rinforzo su alcune zone frequenziali che potessero competere con il “rumore” orchestrale con il minore dispendio muscolare laringeo possibile.
Già Arteaga si poneva il problema nel 1788: “Tra il fracasso dell’armonia, tra i tanti suoni accavallati l’uno sopra l’altro, tra i milioni di note che richieggono il numero e la varietà delle parti, qual’è il cantore la cui voce possa spiccare?”
Nei trattati di canto dell’epoca del Belcanto (XVII e XVIII secolo) il cantante era indotto a legare i due registri, pieno (petto) e falsetto, impercettibilmente, attraverso un rinforzo nell’emissione del falsetto stesso definita come “mezzo falso”, assimilabile all’attuale concetto di “registro medio”: qualità distintive del falsetto divenivano parte delle note centrali donando naturalezza e leggerezza al canto, flessibilità e maggior controllo sulle dinamiche di intensità, fulcro della vocalità virtuosistica. Il settore tonale acuto, dal canto suo, acquisiva pienezza e maggior solidità rispetto al falsetto. Come scriveva Isaac Nathan nel 1836, la tecnica italiana definita “il ponticello”, di giuntura tra voce di petto e falsetto, veniva realizzata attraverso la comparsa della voce di “mezzo falso”, favorita nel principiante dal passaggio in falsetto da una vocale qualsiasi alla vocale /a/ (cioè dall’abbassamento mandibolare e non, come sarà nella “copertura” melodrammatica, dall’abbassamento laringeo).
Se le capacità virtuosistiche furono la naturale evoluzione delle pratiche di “flessibilità della gola” come abilità gestionali della laringe (intese come abilità prassiche di gestione delle tensioni muscolari atte a variare in tempi brevi tensione delle corde vocali, posizione della laringe nel collo e variazioni di pressione aerea sottoglottica), fu solo nel quarto-quinto decennio dell’Ottocento che, con cantanti quali Duprez, Fraschini, Tamberlick, maturò e fu teorizzata la scoperta di nuove possibilità nel timbro e nel volume, che sono state ridotte semplicisticamente alla questione dell’avvento del “do di petto” (oggi fisiologicamente definito in foniatria come “do acuto in registro pieno con consonanza di testa”).
Alberto Mazzuccato, nel 1842, commentando il Garcia, descrive “quella modificazione di voce che Garcia appella timbro chiuso (voix sombrée) e che l’Italia non ha mai designata d’un nome particolareŠSuccede allorché il cantante vuol dare volume alla sua voce, e questo ottiene rialzando il velo palatino fino a chiudere affatto l’apertura delle fosse nasali ed accanalando la lingua, la quale è tenuta tesa alla sua base dalla laringe che in questo timbro resta sempre immobile e alquanto più bassa che non nella posizione naturale. La forma che ne ottiene la faringe è cagione di questo maggior volume e rotondezza di suono vocale”.
Per le esigenze di rinforzo di volume legate alle mutazioni dei rapporti sonori tra voce e orchestra era successo che qualche tenore aveva sperimentato come, esasperando l’abbassamento della cartilagine tiroidea al passaggio di registro dai toni medi agli acuti, si ottenevano modificazioni volumetriche nel cavo ipofaringeo che rendevano vantaggio al timbro (più scuro) e al volume. In Italia, in realtà, tale meccanismo un nome l’ebbe, e fu “copertura”. L’iscurimento della voce e l’aumento del volume così ottenuti soddisfacevano la predilezione per una espressività vocale che stava sopravvenendo al belcantismo; ipertrofia romantica intuita e deprecata già da Rossini che, si racconta, chiese al Duprez, che andava un giorno a visitarlo, di lasciare all’uscio il suo “do di petto”. Questa attitudine portava infatti con sé anche delle trasformazioni fonetiche: l’abbassamento e ancoraggio forzato e persistente della laringe comportava il trascinamento verso il basso di tutto ciò ad essa collegato, osso joide, radice della lingua (da cui il dettame pedagogico della “posizione a sbadiglio”), con palato molle fortemente inarcato e sollevato (da cui l’indicazione pedagogica del “fare la volta del palato”), a discapito della facoltà articolatoria, inficiando così la pronuncia e ostacolando l’esecuzione delle fioriture. Tutto questo risultò molto vero per le voci maschili, dove l’udibilità della voce poteva particolarmente aumentare, nel confrontarsi con l’orchestra, solo attuando tale artificio .
Sempre Mazzucato scriveva: “Qualunque artifizio di pronunziaŠera adoperato allo scopo del maggior volume vocale, al quale unicamente sembravasi aspirare”. Questa, e non la comparsa del “do di petto” attribuita al Duprez dal 1837, fu la vera rivoluzione stilistica della vocalità romantica, sempre più tesa ad un canto ipertrofico, per un potenziamento della forza sonora già da tempo perseguita fra i cantanti, e che fu poi portata agli eccessi che ancor oggi sentiamo in alcuni interpreti; come scriveva Luigi Celentano nel 1867: “per avere la forza si va allo sforzo; per la sonorità al grido; per l’impeto al conato”.
Quando comparve sulle scene “Il Trovatore” di Verdi, erano già circa vent’anni che i tenori avevano cominciato a sperimentare il guadagno d’intensità vocale nel settore acuto con le manovre di “copertura”, e sicuramente ben presto, anche se Verdi non l’aveva scritto, fu grande la tentazione, per la nuova vocalità che stava avanzando, di esprimere la baldanza drammatica nella vocalità di Manrico salendo al do acuto ed esibendo quell’atletismo vocale che ci ha accompagnato fino ai nostri giorni. Atletismo che ha sovvertito solo i valori estetici dello “stupore” dell’ascolto: un tempo le capacità acrobatiche del cromatismo vocale e della flessibilità della gola, oggi la capacità di lanciare acuti forti e possenti.
Fu comunque in quegli anni che si formò la modalità tecnica fisiologicamente più economica per affrontare, a partire ovviamente da organi vocali anatomicamente adeguati per caratteristiche di portanza e peso vocale, il repertorio melodrammatico.
Già il Carelli nel 1891 segnalava che la “ voix sombrée” non va considerata come una tecnica sovvertitrice dei canoni ortodossi, ma un mero accessorio del canto al fine “di ottenere la maggior pompa de’ mezzi vocali”, dunque bagaglio tecnico indicatore di una evoluzione della vocalità stessa.
Come scrive Beghelli, “la rivoluzione propugnata da Duprez toccava l’intero atteggiamento espressivo del cantante e non solo il meccanismo di emissione di poche note acuteŠLa contrapposizione storica fra Duprez e Nourrit è per tanto un’antitesi fra due categorie tenorili sentite già in partenza come fortemente distinteŠprima ancora che per l’estensione, nella modalità di approccio alla parte, caratterizzata da una vocalità più o meno sfumata, più o meno di forzaŠa differenziare principalmente Duprez da Nourrit dovevano essere la potenza fonica, in termini di decibel, la grana particolarmente robusta e brillante, infine la corda espressiva sempre tirata: tre qualità che, sommate, sortivano un effetto inedito”.
Garantito questo, e con buona pace di tutti, si continueranno a cantare alcuni ruoli, legittimamente, nell’uno o nell’altro modo, cioè ci sarà offerto ascoltare sia il “solito” amato sanguigno Trovatore, palestra di esibizione vocale, come anche un Trovatore non del tutto svincolato da modelli “belcantisti” anche se in cerca di un loro superamento (nessuna variazione non segnata da Verdi nel raddoppio delle cabalette), e forse più attento ai valori musicali.
Ugualmente non ci meraviglia come abbiano potuto cantare con successo gli stessi ruoli vocalità tra loro molto lontane, sia come peso vocale specifico che come stile tecnico-esecutivo: furono Duca di Mantova sia Tagliavini che Del Monaco, e Butterfly sia Toti Dal Monte che Raina Kabaivanska.
Oggi allora, per il cantante, la questione è: visto che si possono danneggiare le corde vocali “spingendo” il volume della voce oltre le sue capacità strutturali (altrettanto facilmente quanto frequentando tessiture troppo elevate rispetto alla propria conformazione morfologica) il problema è quello di classificare una voce in maniera corretta non solo per estensione ma individuando l’idoneità del peso vocale a un dato repertorio e in base al taglio interpretativo che all’esecuzione si vuol dare. E’ una forma di prevenzione anche questa.
Quello che alla fine oggi stenta a soddisfare l’orecchio dei melomani è forse ascoltare la “Pira” senza il “do di petto", o un Trovatore con voci non paragonabili a famose grandi “canne” degli anni passati. Perché un po’ figli dell’ipertrofia romantica.
Credo sia per questo che alla recente esecuzione di Riccardo Muti si attribuiscano poi letture che forse sono solo naturale e legittima conseguenza del taglio interpretativo: qualcuno ha detto che sembrava che le voci venissero da dietro un velario, ad altri è parsa un’opera notturna, crepuscolare. Forse è l’atmosfera che Verdi stesso cercava, o la più vicina alla tradizione esecutiva del tempo. Ecco allora che si può sentire un Trovatore così, senza il do acuto della “Pira”, senza fare troppi clamori così come, al contrario, accettare l’esuberanza di un solista che in una serata “spara” un sovracuto non previsto, come fece la Callas a Mexico City lanciando un mi bemolle sovracuto alla fine del concertato del secondo atto in Aida. Questo è il teatro in musica.
Ma il percorso tracciato dalla vocalità lungo la sua evoluzione si muove continuamente tra la fisicità della voce e il suo preziosismo, la sua capacità di stupire ora per plasticità/flessibilità ora per portanza/forza, mostrando il suo “peso” e il suo “movimento”. Sono le due facce del suo mistero e della sua esuberanza, espressione della sua volontà di esistere ed esibirsi.